Dalla prima rivoluzione industriale in avanti, passando per la rivoluzione tecnologica iniziata con l’invenzione del transistor e proseguita poi con la rivoluzione dell’informazione con la nascita di internet, sembra ormai inevitabile che a un certo punto del grado di sviluppo di una tecnologia, a causa di un utilizzo scorretto (agli occhi di chi?) e certamente non in linea con le ragioni per le quali quella tecnologia è stata sviluppata, venga in essa indotta una mutazione, spontanea o ricercata, che la porta a deviare oltre il punto di bassa risoluzione. Questo ipotetico punto di una curva che ha sui due assi il tempo e il grado di sviluppo, delinea una situazione per la quale una tecnologia che si è evoluta per un certo scopo finisce per tradire la sua “mission” originaria, in nome di nuove e mutate esigenze di consumo.
Tra i casi illustri presenti nel libro “Bassa risoluzione” di Massimo Mantellini vi è per esempio quello della fotografia, tecnologia sviluppatasi a partire dall’Ottocento e culminata, oggi, con i “selfie mossi” dei nostri smartphone. Una tecnologia che ha visto mutate le proprie esigenze in corso d’opera e che si è quindi adattata di conseguenza, rendendo i nostri ricordi evanescenti e non più adatti ad essere impressi su una lastra fotografica. Al giorno d’oggi le fotografie sono quasi tutte scattate dai nostri smartphone, in sequenze senza fine svendute sui social, in cui non esiste più il valore di una fotografia, ma solo quello dell’istante sfocato in cui essa viene scattata, un singolo pixel della nostra vita a bassa risoluzione. La fotografia ha cioè superato il punto di bassa risoluzione, ovvero quel punto della sua storia evolutiva in cui le è stato richiesto non di migliorarsi ulteriormente, ma di diventare mainstream, superando l’obiettivo dei grandi risultati d’immagine, per annegare infine in quello della rapidità di scatto e di condivisione, a scapito della qualità e del suo valore intrinseco.
La bassa risoluzione ci colpisce perché a un certo punto, imprevedibile nel tempo e nello spazio, decidiamo che qualcosa è “good enough”, abbastanza buono, e non c’è più alcuna ragione per migliorarlo, ma è anzi tempo di trasformarlo per consumarlo più velocemente. La bassa risoluzione è quindi forse lo specchio del consumismo occidentale, un modo dell’essere che vede il trionfo della superficie contro la profondità della completezza, di un approfondimento estetico troppo faticoso per essere indagato. L’accettazione alternativa di un bene degradato è il passo definitivo che sancisce un ulteriore allontanamento da Dio, non già come entità metafisica, ma come perfezione silente che permea la natura nella sua forma più pura: il genio umano. La bassa risoluzione tecnologica, come metafora della bassa risoluzione delle nostre vite frettolose, compromette l’autenticità di uno sguardo profondo, riducendo le aspettative e tentando, inutilmente, di fondere insieme la vastità di informazioni reperibili con la contingenza del reale. Risultato di questa bassa risoluzione che permea ogni aspetto dell’esistenza è un’incapacità diffusa di occuparsi della complessità, una bulimia di consumo come risposta a una frattura della realtà. Da quando qualcuno ci ha detto che il tempo è denaro, abbiamo finito per risparmiare ogni secondo come fosse un penny, nel tentativo di mettere da parte un capitale per il futuro, senza comprendere in realtà che ogni minuto sottratto all’approfondimento ci avrebbe infine portato a erodere rapidamente il nostro patrimonio.
Queste riflessioni sono nate in seguito alla lettura del libro “Bassa risoluzione” di Massimo Mantellini; sono quindi da esso ispirate, ma ovviamente non sostitutive. Prendetevi il vostro tempo per leggerlo: ne varrà la pena. Alla prossima.
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