La tendenza naturale che cerco di combattere quotidianamente è quella della polemica costante, quello stato dell’animo umano, a volte mitigato dalla timidezza o dalla buona educazione, che tutti coltiviamo nel profondo e difendiamo ritenendo che sia parte inscindibile del nostro essere. La polemica è una reazione volontaria o involontaria allo status quo e non è necessariamente negativa. Tuttavia, se non prestiamo attenzione, cresce selvaggiamente in noi trasformandosi da mattone della vita in arma di distruzione di massa, che falcia indiscriminatamente qualunque erbaccia osi interporsi sul suo cammino.
Il rischio della polemica, cioè, è che se non la utilizziamo correttamente, anziché portare beneficio, risulti invece dannosa per i nostri stessi scopi. Naturalmente ci sono sempre ottime ragioni per protestare, ma il punto è che è fin troppo facile rivoltarsi contro ciò che non ci va giù, che sia la politica, l’università, il lavoro o in generale qualsiasi cosa che non sia sotto il nostro controllo. E al contempo è giusto farlo, perché se viene meno la polemica viene meno il principio di qualsiasi sistema democratico di condivisione delle idee. Ma perché la polemica funzioni deve essere corredata in equa misura di critiche e proposte di cambiamento, come in genere richiesto in qualunque questionario sulla qualità.
Recentemente, facendo zapping fra i canali (non lo faccio quasi mai, guardo pochissima TV), sono capitato su una trasmissione di Real Time che descriveva la storia di Jeanne, una donna di 39 anni di 319 kg che non riesce a smettere di mangiare. È facile per lei lamentarsi che la sua vita così non va bene, che deve perdere peso altrimenti morirà molto presto, che non c’è più tempo. Salvo poi cedere a ogni pranzo, mangiando bacinelle di porcherie americane piene di formaggio e salse di dubbio gusto. Non è certamente una questione semplice, chi è affetto da una patologia del genere non dubito che soffra molto per la propria disabilità e necessiti dell’aiuto di uno psicologo per uscire da questa impasse. Ma Jeanne mi ha ricordato che, in fondo, siamo un po’ tutti come lei: ci lamentiamo del governo ladro, del lavoro che è stressante o del caldo, salvo poi tornare alla stessa tavola a mangiare lo stesso pasto. E quindi? Che si fa? Niente più polemiche? Ciò che non è sotto il nostro controllo, per definizione, non possiamo controllarlo. La scoperta sorprendente, però, è che in realtà molte poche cose non sono sotto il nostro controllo, magari in minima parte, ma una piccolissima influenza alla storia la portiamo tutti. Tolstoj diceva che la storia è l’integrale delle esperienza e delle vite di tutti gli uomini. Ogni tanto arriva un grande condottiero, un politico, un innovatore che sembra portare grossi contributi, e in effetti è così, ma la storia è fatta anche da tutti i civili e i soldati che non si sono arresi a lamentarsi del pericolo senza combattere. Per quanto sia piccolo il nostro contributo, ciò che possiamo e dobbiamo fare, per vivere e non lasciarci vivere, è intervenire nel nostro giardino, nel nostro quotidiano, modificando i deboli equilibri che ci circondando e contribuire così al cambiamento.
L’obiettivo della polemica dev’essere quello di distinguerci da ciò che combattiamo, non deve portarci invece ad assomigliare sempre più al nostro nemico. In una saga fantasy che sto rileggendo in questo periodo, il protagonista, Eragon, si chiede più e più volte se le atrocità che commetterà in nome della libertà saranno giustificate dall’obiettivo di sconfiggere il crudele tiranno Galbatorix. È un dubbio autentico e umano, che ci riporta alla “nostra” polemica: combattere, resistere, disobbedire, in alcuni casi, possono essere l’arma migliore che abbiamo da contrapporre allo status quo, motivando la nostra polemica con azioni concrete atte a migliorare questo piccolo angolo di universo. E ora scusatemi, ma tornerò a imprecare contro i libri dell’università…ah, se solo fossi il rettore…
Link:
https://www.wittgenstein.it/2019/06/16/domenica-mattina/